Quello che costruiamo con il cibo è un vero e proprio rapporto, fatto anche di emozioni, ricordi, sensazioni, abitudini, pensieri. Questo rapporto si costruisce nel tempo, a partire dall’infanzia.
Non possiamo quindi pensare che ci nutriamo solo per rispondere a un bisogno fisiologico, ma nel farlo rispondiamo anche ad altri tipi di bisogni: di cura, affetto, vicinanza. Capiamo così quanto il nostro rapporto con il cibo possa essere influenzato da significati personali di cui non siamo sempre coscienti.
Le emozioni in particolare possono avere un ruolo diretto nel determinare il nostro modo di alimentarci, prima di tutto perché hanno dei correlati fisiologici che possono confonderci (ad esempio l’ansia mi fa chiudere lo stomaco, facendomi pensare di non aver fame) e poi perché il cibo può essere utilizzato come strumento di regolazione emotiva.
L’emotional eating o fame emotiva è un termine che descrive un comportamento alimentare caratterizzato dalla tendenza ad utilizzare il cibo come strategia di gestione di eventi stressanti e emozioni spiacevoli, cioè mangiamo per sentirci meglio, per riempire dei vuoti emotivi più che vuoti allo stomaco. Le emozioni che più frequentemente si associano all’emotional eating sono l’ansia, la rabbia, la tristezza, la noia.
È importante ricordarsi che la fame emotiva NON è di per sé un problema! Quante volte infatti può capitarci di tornare a casa dopo una giornata stressante e aver voglia di un bel pezzo di dolce o del nostro piatto preferito?
Diventa un problema quando rappresenta la nostra unica strategia di gestione delle situazioni stressanti o delle emozioni spiacevoli, strategia che applichiamo in modo rigido, inflessibile e inconsapevole. In questi casi, la fame emotiva può essere utile nel breve termine, ma quali sono le conseguenze sul lungo termine? Non solo le emozioni negative che abbiamo cercato di controllare mangiando non saranno sparite, ma a queste si sommeranno altre emozioni negative: ansia, senso di colpa, vergogna.